Godetevela ed assaporate ogni domanda, ne vale la pena!
Come e da cosa vi è venuta l’ispirazione per il nome Zephiro?
Mi venne in mente mentre stavo guidando, la guida può ispirare parecchio
soprattutto quando i percorsi sono automatici ed una parte della mente viaggia
in parallelo alla tua macchina. Zephiro suonava bene e poi è il nome di un
vento, del vento che annuncia la primavera, metaforicamente che porta novità.
Speriamo di essere stati e di essere in futuro all’altezza del nome. Ce la
mettiamo tutta. La scelta del nome della band ebbe per me lo stesso processo
che c’è nella scelta di una parola di un testo… prima deve suonare bene ed in
secondo luogo ma non da meno avere un bel significato.
Anche se con alcune variazioni di formazione nel corso del tempo siete
insieme da dieci anni, come è cresciuto e si è evoluto il vostro rapporto? Come
è cambiata rispetto agli inizi la vostra carriera?
Il 19 dicembre festeggiamo 10 anni, in quel giorno del 2002 nacque la band
e per nascita io intendo il primo live, anche se il nome fu scelto prima ma
questo atto lo associo più ad una fecondazione che ad una nascita. Il nostro
rapporto si è evoluto eccome, anche il mio rapporto con la vita si è evoluto
grazie agli attuali membri e agli ex membri, primo tra tutti l’ex-bassista
Giacomo Citro con cui ho condiviso almeno 250 live e svariate esperienze di
vita, prima tra tutte lo Zephiro Japan Tour 2010 che ci fece trasferire a Tokyo
per 3 mesi e fare un tour di 37 date. Indimenticabile. Adesso tutto quello che
mi hanno dato gli ex-membri per migliorarmi lo sto rimettendo in gioco con
l’attuale cantante/bassista Claudio Desideri con cui sto dando degnissima
continuità da 2 anni. Il frutto di ciò è un mini-tour a New York e il nuovo EP
“Kawaita me”. Ne siamo soddisfatti e lo consideriamo l’inizio di un nuovo
viaggio.
Parlando di carriera e di eventi ai quali avete partecipato, quale momento
ricordate con più piacere? C’è un episodio al quale siete rimasti
particolarmente legati?
Ce ne sono veramente tanti, ad esempio il vedere ragazzi giapponesi cantare
in italiano durante i nostri live a Tokyo. Invece professionalmente parlando ad
esempio ricordiamo la nostra apertura al concerto di Carl Palmer, il mitico
batterista degli Emerson, Lake and Palmer. Ci colpì la sua umiltà ed attitudine
a confrontarsi con noi, con sorrisi e consigli.
Com’è stato il lavoro che vi ha portato alla realizzazione del vostro
primo disco? Quali e quante differenze ci sono state rispetto alla produzione
del secondo?
Ogni album ha una lunga storia e dei travagli dietro, un album non sarebbe
tale se non fosse difficile arrangiarlo, registrarlo e produrlo. Il primo nostro
lavoro ufficiale del 2006 “Immagina un giorno” è il sunto di 4 anni di live e
composizioni, ed è rappresentativo di quel periodo in cui eravamo più seguaci
del progressive e ancora ricercatori assidui delle nostre strade. Con i vari
cambi di formazione ed anche la mia evoluzione artistica, siamo approdati al
secondo lavoro “Kawaita me” che è senza dubbio più vicino alla vecchia new wave
ed alla rivisitazione che se ne sta facendo in questi ultimi 5 anni (vedi white
lies, mew, klaxons, etc..)
A giudicare dal grande numero di live che avete all’attivo, quanto è
importante per voi continuare a portare avanti il vostro progetto e la vostra
musica? Cos’è che vi da la carica giusta per affrontare di volta in volta tour
e nuove sfide?
Personalmente la carica me la da il continuo inseguire la composizione
della canzone perfetta che ovviamente non esiste! Ma il solo cercare di
tenderci verso anche lontanamente mi da la benzina per andare avanti. Ma cosa
si intende per canzone perfetta? Per me è quella canzone che ti fa venire la
pelle d’oca o che ti ricorda qualcosa di indimenticabile. Poi ovviamente grazie
alla nostra musica abbiamo visitato paesi esteri non da turisti ma da musicisti
e questo è già sufficiente per fare sempre meglio e visitarne di nuovi per aprire
le nostre menti e il nostro spirito a nuove culture, nuovi modi di affrontare
la vita, nuove attitudini. Sono dell’opinione che se non si viaggia sia
mentalmente che/o fisicamente non si possa comunicare più di tanto.
Avete notato delle differenze o delle particolari caratteristiche nel
suonare in diverse parti del mondo? Avete delle esperienze curiose, simpatiche
o divertenti da raccontarci?
Vado a braccio, in Giappone a volte capitavano dei fan con magliette del
Milan o della Juve, ma che centrava con noi??… a Tokyo c’era una ragazza credo
di 16 anni che venne a quasi tutti i live sempre accompagnata dal padre (povero
papà…ci avra odiato?) …a New York vigeva il prendo lo strumento , salgo sul
palco e suono. Easy going ovunque e in ogni momento a partire dal pubblico ai
gestori e alle altre band… in Francia a Montplellier nel quartiere arabo odore
avvolgente di kebab, pubblico scatenato che danza su canzoni che non conosceva
assolutamente (le nostre)… non dimentichiamo l’Italia con fan fidelizzati da lungo
tempo che ci vogliono bene e ci seguono. Ricambiamo.
Quante soddisfazioni o delusioni vi hanno lasciato i vari tour all’estero
e in Italia?
Fortunatamente delusioni non tante, il nostro approccio positivo al live a
al prelive ci ha evitato potenziali polemiche che spesso avvengono di fronte
alla disorganizzazione di alcuni eventi. Le soddisfazioni sono infinite e
indelebili, nel nostro piccolo quello che abbiamo fatto non ce lo toglie
nessuno, è dentro di noi e ci aiuterà sempre. E’ una buona base di lancio per
noi stessi.
Da cosa è sorta la scelta di cantare unicamente in italiano? Ed esportando
la vostra musica anche in altri Paesi come è stato l’impatto di questa vostra
preferenza?
La scelta è stata obbligata visto che nessuno di noi aveva la padronanza
sufficiente dell’inglese per poter scrivere dei testi con un minimo di valore
artistico. Io pur parlando inglese non mi sento tuttora sufficientemente a mio
agio nel comunicare le mie mille sfumature che solo l’italiano mi permette. La
nostra lingua all’estero è vista come esotica, come per noi può essere il
portoghese o lo spagnolo. Sicuramente desta curiosità e la barriera di non
capirne il significato non sembra essere tale ma piuttosto uno stimolo alla
percezione. Bellissimo.
Com’è nata l’ispirazione di esplorare nuove lingue nei testi delle vostre
canzoni? E che evoluzione ha avuto questa idea? Vi ha divertito al punto da
spingervi a pensare di poterlo rifare anche in futuro?
La scelta di adattare i brani dall’italiano al giapponese (ne abbiamo ben 3
che sono “Taiyo no aru basho”, “Kage” e “Kawaita me”) è stata possibile solo
grazie al mio amico e artista Daisuke Ninomya che è entrato in sintonia
con la nostra musica e senza arrivare a fare traduzioni letterali che sarebbero
state prive di buona metrica e melodia, ha dato una evoluzione ai nostri brani.
Il risultato lo lasciamo giudicare a voi e ai numerosi nostri fan giapponesi
che già da 2 mesi possono ascoltare i nuovi 2 brani nella loro lingua sul
nostro myspace. Personalmente colgo l’occasione per ringraziare Daisuke perché
ci ha privilegiato della sua arte. Non è poco.
-Che rapporto avete con i vostri fan e con il pubblico in generale?
Molto stretto, essendo indie ce lo possiamo permettere e non vedo perché
non godere di questo scambio di opinioni, emozioni, critiche, suggerimenti e
richieste.
Cosa potete dirci riguardo ai vostri prossimi progetti futuri? News?
Per ora stiamo promuovendo nei modi più disparati l’EP “Kawaita me” che ha
segnato per noi uno nuovo punto di partenza. Come accennavo prima restiamo a
tutti gli effetti una band indie e quindi come tale accettiamo di buon grado lo
spazio che blog come il vostro ci danno per comunicare potenzialmente al mondo…
Nel pratico stiamo cercando di organizzare e prepararci il nostro terzo tour in
terra nipponica. Sicuramente la composizione di nuovi brani, ci sentiamo
produttivi ultimamente. Grazie ai lettori per essere arrivati a leggere fino
qui. A presto e buona musica.
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